il provinciale_apoditticoIL PROVINCIALE

di Raffaella Piccinni

  

Panezio è un paese raccolto tra la Bassa e l’Appennino tosco-emiliano. Panezio è per me il principio, il confine estremo della mia memoria, è un’infanzia solare, è il luogo dove imparai ad andare in bicicletta, è la sottana profumata di mia madre, è l’immagine della vergine nella parrocchia.

   

Lasciai il mio paese per andare a studiare a Parma, prima in collegio, poi all’università.

   

Ricordo il timore con cui lasciai il mio piccolo mondo. Ero come la prima creatura di Dio che veniva cacciata dal paradiso terrestre. Quale peccato avevo commesso? Ne avevo colti di frutti dagli alberi! In maggio i ciliegi erano ricchi e il melo dell’orto dava frutti piccoli, duri, amari ma la natura è un meccanismo perfetto, anche le mele avevano un senso: proiettili inesorabili per il camion del signor Giuseppe, che alle diciassette di ogni giorno di primavera tornava dalla cantoniera. Eppure per quei peccati avevo già espiato attraverso le mani di mio padre.

   

L’estate volgeva al termine, gli insetti abbandonavano i campi ed anche io come loro avrei perduto il mio regno per andare in collegio.

   

Quando si è bambini l’autunno equivale alla morte, alla fine. Io appunto amavo soprattutto l’estate, anche quella più calda e più dura. Alle dodici si pranzava nell’orto tra i pesanti piatti di ceramica bianca, tra i cerchi di Lambrusco che mio padre lasciava sulla tovaglia, tra le chiacchiere di zia Marilena, tra gli sguardi muti del nonno, fatti di mille profondissime rughe che, come i cerchi delle querce, ne testimoniavano l’età.

 

Nel primo pomeriggio andavo al fiume con i compagni a pescare le rane. Quando tornavo mamma urlava come una pazza. Ogni sera mi pettinavo i capelli con le dita e mi toglievo la polvere dai pantaloni. Ogni sera pensavo che sarebbe stata quella giusta! Quella in cui non si sarebbe accorta che ero stato al fiume o che mi ero rotolato al suolo. Tutto assolutamente inutile! Mamma non capiva che almeno tre giorni la settimana ero un soldato e che la guerra è fatta di trincee. Ma infondo anche quell’inesorabile ispezione al guanto bianco faceva parte del gioco. Tutto lì il paradiso perduto. Compreso tra la cucina, l’orto, il bosco e il fiume. Oggi, come nei primi giorni di quella costosa galera, il ricordo di Panezio ancora mi sostiene.


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